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Il lavoro da remoto penalizza il networking e l’innovazione?

Esce su Nature Computational Science uno studio del MIT sul rapporto tra smart working e networking tra colleghi. Tra gli autori anche Paolo Santi (IIT-CNR).

La mancanza di vicinanza fisica causata dal lavoro a distanza durante la pandemia di COVID-19 ha ridotto gli incontri casuali e la comunicazione tra i ricercatori, fondamentali per generare un flusso di nuove idee tra gli individui, secondo uno studio pubblicato su Nature Computational Science

Alla fine del 2019 il gruppo di ricerca del Senseable City Lab del Massachussets Institute of Technology (di cui fa parte anche Paolo Santi, Dirigente di ricerca dell’IIT-CNR) ha avviato uno studio sugli scambi di e-mail tra i ricercatori del famoso centro di ricerca americano. L’arrivo della pandemia nel marzo 2020, però, ha improvvisamente cambiato le carte in tavola: tutto il personale del MIT si è ritrovato, come gran parte delle persone nel resto del mondo, a lavorare da casa, fisicamente lontano dai propri colleghi, una condizione che si è protratta per molti mesi. 

Se è vero che il digitale e quindi appunto le e-mail, le videoconferenze e gli scambi di messaggi ci hanno permesso di continuare a lavorare, studiare e mantenerci in contatto con il mondo, qualcosa potrebbe essersi perso in questo cambio così radicale di abitudini. Proprio per indagare meglio questo fenomeno gli scienziati del SCL hanno deciso quindi di utilizzare la mole di dati che avevano a disposizione per analizzare il rapporto tra la convivenza fisica sul luogo di lavoro e la formazione di nuove relazioni e collaborazioni. PROXIMATE, questo il nome dello studio ora pubblicato su Nature Computational Science, dimostra che la compresenza in ufficio è essenziale per la formazione dei cosiddetti “legami deboli” tra colleghi e che queste interazioni sono state notevolmente ridotte dal lavoro da remoto.

La definizione di “legami forti” e “legami deboli” è stata data nel 1973 dal sociologo americano Mark Granovetter: i legami forti uniscono gruppi definiti di persone che lavorano in stretta interazione e formano di fatto un circuito chiuso, mentre i legami deboli si stabiliscono tra membri singoli di gruppi diversi, con frequenza più irregolare. È proprio tra i legami deboli, però, che si creano gli scambi più proficui di nuove informazioni e idee all’interno di un’organizzazione, stimolando di fatto l’innovazione.


L’impatto del lavoro da remoto sui legami deboli tra colleghi

L’articolo pubblicato su Nature Computational Science analizza i flussi di posta elettronica di 2.834 docenti e ricercatori che lavorano in più di 100 Dipartimenti e laboratori di ricerca del MIT, scambi effettuati tra il 26 dicembre 2019 e il 15 luglio 2021. I risultati principali dello studio dimostrano che l’istituzione di un regime totale di lavoro a distanza a partire dal 23 marzo 2020 ha causato un calo del 38,7 % del numero di nuovi legami deboli formati tra i colleghi, con un impatto cumulativo nel tempo. Nei 18 mesi presi in analisi dallo studio questo calo iniziale è equivalso a una perdita prevista di oltre 5.100 nuovi legami deboli, circa 1,8 a persona. Anche se a colpo d’occhio non sembra molto, la perdita è comunque sostanziale in un ambiente come quello della ricerca, che si nutre di interazioni soprattutto tra discipline diverse, ma non solo. 

Lo studio rileva che le cosiddette “ego networks” (le reti di contatto e scambio che sono proprie di ciascun individuo) sono diventate via via più stagnanti nel corso dei mesi di lavoro lontani dalla sede fisica dell’ufficio. Venendo a mancare i legami deboli si è intensificata la connessione tra i legami forti: insomma, i ricercatori hanno continuato a comunicare molto, ma solo con le persone con cui avevano già collaborazioni aperte.


La distanza fisica, un parametro fondamentale per l’analisi

Paolo Santi ci spiega che per analizzare i dati è stato utilizzato il parametro della distanza fisica sul luogo di lavoro, che ha portato a individuare quattro gruppi principali: i colleghi che solitamente lavorano a una distanza fisica di 0 metri, cioè nello stesso gruppo o laboratorio, quelli che lavorano in laboratori distinti ma fisicamente vicini (entro i 150 metri) e quelli che si trovano a una distanza fisica media (entro i 650 metri) e ampia (oltre i 650 metri).

I grafi elaborati in base ai dati provenienti dalle e-mail scambiate durante il lavoro da remoto dimostrano che con la distanza fisica i legami deboli sono incrementati per il primo gruppohanno avuto un calo immediato, consistente e persistente nel tempo per il secondo gruppo e un calo non significativo per gli ultimi due gruppi.

“La soglia dei 650 metri è stata scelta perché si tratta di una distanza percorribile di circa 5-10 minuti a piedi, quindi un breve spostamento all’interno di un campus, mentre la soglia dei 150 metri è emersa spontaneamente dall’analisi dei dati”, afferma Paolo Santi. “I risultati dimostrano che la vicinanza fisica contribuisce alla formazione di legami deboli e che coloro che lavorano lontano l’uno dall’altro non hanno molti incontri casuali anche quando lavorano di persona. Quando la distanza fisica tra uffici è ampia (oltre i 650 metri), i legami deboli hanno una bassa probabilità di svilupparsi anche con il lavoro in presenza, dunque l’effetto del lavoro remoto su tali legami è trascurabile.”


L’assenza di legami deboli penalizza la ricerca e l’innovazione?

Questo cambiamento nelle relazioni tra colleghi dovuto al lavoro da remoto potrebbe avere conseguenze importanti nell’ambito della conoscenza. Uno studio pre-pandemia, sempre condotto dal Senseable City Lab, aveva rilevato che i ricercatori nello stesso spazio di lavoro hanno più del triplo delle probabilità di collaborare su documenti come co-autori e più del doppio delle probabilità di collaborare su brevetti rispetto a quelli che stanno a soli 400 metri di distanza tra loro. La riduzione del numero di connessioni tra gruppi diversi che si è verificata con il lavoro da remoto non farebbe che confermare questo quadro poco incoraggiante.

C’è poi un altro fattore che potrebbe far leggere questi dati in modo doppiamente preoccupante: non soltanto ridurre il numero delle connessioni tra gruppi diversi diminuisce lo scambio di informazioni, la possibilità di un approccio interdisciplinare e la condivisione e la nascita di nuove idee, ma il rafforzamento delle comunicazioni e interazioni tra persone che già fanno parte di un gruppo strutturato alla lunga potrebbe portare al cosiddetto groupthink, il pensiero di gruppo, una patologia sociale che omologa le idee e le opinioni, anestetizza il conflitto, spegne le differenze tra i punti di vista e la creatività individuale.


Le conseguenze per l’organizzazione del lavoro nel prossimo futuro

L’analisi non si ferma e i ricercatori che oggi pubblicano questo studio stanno osservando anche i cambiamenti portati dalla ripresa del lavoro in modalità ibrida. Con la parziale ripresa del lavoro in presenza negli uffici del MIT nel 2022 sembra esserci stata anche una leggera risalita del numero dei legami deboli. Questo suggerisce che probabilmente nella “nuova normalità” ibrida post-pandemia potremo scoprire nuovi equilibri nelle interazioni di lavoro tra colleghi in presenza e da remoto, con scenari che continueranno ad evolvere e ad adattarsi. 

Per Carlo Ratti, Direttore del Senseable City Lab, questo studio offre una migliore comprensione dell’interazione umana e della produttività, utile per immaginare la tanto attesa “nuova normalità”. “Significa che dobbiamo tornare al 100% nel nostro ufficio? No. Manterremo la flessibilità del lavoro a distanza”, afferma. “Dobbiamo sviluppare un regime di lavoro che enfatizzi il meglio di ciò che lo spazio fisico può fare per noi”.

Le aziende e gli enti pubblici che in questi mesi stanno progettando nuove politiche di smartworking per i loro dipendenti dovranno probabilmente tenere conto del bisogno di creare nuove occasioni di interazione tra i propri gruppi di lavoro. Utilizzando i risultati sperimentali, il team di ricerca del SCL ha anche creato un modello che può essere utilizzato per identificare la quantità minima di lavoro in presenza richiesta per facilitare una comunicazione sufficiente tra i ricercatori e favorire la diffusione delle informazioni e la nascita di nuove idee e percorsi di innovazione. Questi risultati potrebbero avere implicazioni per la progettazione di futuri campus di ricerca e ambienti di lavoro, nonché per lo sviluppo di tecnologie virtuali che cercano di ricreare le interazioni che si verificano negli uffici fisici.


Il team di ricerca:

Lo studio è stato condotto dal MIT in collaborazione con il Consiglio Nazionale delle Ricerche, la Texas A&M University, la Technical University of Denmark e la University of Oxford. All’articolo ha contribuito anche il famoso psicologo evoluzionista Robin Dunbar.

Daniel Carmody, MIT, Postdoctoral Researcher, Senseable City Lab;
Martina Mazzarello, MIT, Postdoctoral Researcher, Senseable City Lab; 
Paolo Santi, MIT, Principal Research Scientist, Senseable City Lab, and Research Director, IIT-CNR; 
Trevor Harris, Texas A&M University, Assistant Professor, Department of Statistics;
Sune Lehmann, Technical University of Denmark, Professor of Networks and Complexity Science; 
Timur Abbiasov, MIT Postdoctoral Researcher, Senseable City Lab; 
Robin Dunbar, University of Oxford, Emeritus Professor of Evolutionary Psychology;
Carlo Ratti, Director, Senseable City Lab

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