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Non credere alla tua bacheca Facebook, hai solo 150 amici

Chiara Boldrini (Ubiquitous Internet) studia come si sviluppano i rapporti sociali in rete: “Online o offline, le relazioni seguono le stesse leggi”.

150: è questo il numero massimo di relazioni che una persona può curare in ogni momento della vita. Robin Dunbar, antropologo britannico, aveva ricavato il numero dai suoi studi basati sull’osservazione dei comportamenti degli individui nella vita di tutti i giorni. Negli ultimi anni, tuttavia, sta emergendo che il limite vale anche per le relazioni che instauriamo online.

Parte tutto dal cervello

Chiara Boldrini, ricercatrice dell’Unità di ricerca Ubiquitous Internet dell’IIT-CNR, studia come si comportano le persone sui social network: “Le interazioni che abbiamo nella vita virtuale non sono poi troppo diverse da quelle che si instaurano dal vivo”, spiega.
Facciamo un passo indietro. Il limite teorizzato da Dunbar ha radici antiche, risalirebbe addirittura al tempo in cui l’uomo aveva le sembianze di un primate. É ormai assodato tra gli scienziati naturali che la dimensione dei gruppi sociali nei mammiferi più simili agli uomini aumenta al crescere delle dimensioni del cervello, più precisamente del volume della neocorteccia cerebrale. Se applichiamo lo stesso ragionamento all’uomo, ecco che si scopre che la nostra corteccia cerebrale è disegnata per farci relazionare con circa 150 persone. Quindi, anche se conosciamo molte più persone, di fatto riusciamo a mantenere un rapporto significativo con un numero ristretto e ben preciso di queste.

Gli scienziati del gruppo Ubiquitous Internet sono partiti da queste considerazioni per capire che cosa succede oggi, in una società connessa, dove abbiamo l’impressione di poter coltivare molte più amicizie – seppur senza contatto fisico – rispetto a un tempo.

I ricercatori hanno analizzato dati sul comportamento degli utenti di Facebook e Twitter e hanno visto che internet sembra non aver cambiato, almeno in termini numerici, le nostre relazioni.

“Sui social, se ci riferiamo a una singola persona (che chiamiamo “ego”) abbiamo visto come intorno a questa abbiamo circa 150 relazioni sociali che possono essere raggruppate in cerchi concentrici”. Man mano che ci si allontana dall’ego, l’investimento nella relazione diminuisce, quindi si è meno propensi mettere un like o commentare il post.

Ci sono amici e amici

Ricerche come quelle di Boldrini si rivelano utili anche per gli stessi antropologi visto che grazie ai social disponiamo di una grande quantità di dati per studiare il comportamento delle persone su larga scala, cosa che non era possibile fino a solo un decennio fa. “Il fatto di avere tantissimi dati ha permesso al nostro gruppo di perfezionare gli studi di Dunbar. Siamo addirittura riusciti a individuare un livello di relazione che l’antropologo britannico aveva teorizzato ma di cui non era mai riuscito a dimostrare l’esistenza”, racconta Boldrini. Le 5 persone che fanno parte della cerchia più vicina non si troverebbero, infatti, tutte alla stessa distanza, ma ci sarebbero 2 persone molto più vicine all’ego rispetto alle altre, tanto da formare un livello ulteriore.

Studiare le relazioni che instauriamo sui social può aprire una serie di filoni di ricerca anche sulla diffusione dei messaggi. La teoria dei sei gradi di separazione è un’ipotesi secondo la quale ogni persona può essere collegata a qualunque altra attraverso non più di 6 passaggi. Ma ciò che vale per messaggi di dominio pubblico non è detto che funzioni per i messaggi riservati. “La fiducia in una relazione è importante” sorride Boldrini “ed è per questo che, nel momento in cui devo far passare un’informazione riservata, voglio affidarmi solo a determinate persone, quelle che fanno parte delle cerchie più vicine. Ecco che abbiamo visto che i passaggi diventano ben più di 6.”.

La distanza dall’ego potrebbe essere utile anche per suggerire potenziali nuovi amici. “I social propongono un nuovo amico contando gli amici che abbiamo in comune. Noi, con i nostri studi, aggiungiamo che non tutti gli amici sono uguali: dipende dalla cerchia in cui si trovano”.

La rete al lavoro

La struttura ego-networks funziona anche in ambito lavorativo. “Lo stesso Dunbar cita l’esempio delle fabbriche di Gore-Tex, dove ciascun edificio è pensato per ospitare meno di 150 persone. Oltre, si perderebbero il controllo sui processi produttivi e il senso di comunità tra i dipendenti”, spiega Boldrini.

La ricercatrice e il suo team hanno provato a vedere se il principio vale anche per il loro mondo, quello dell’accademia. Sono partiti dai dati relativi alle pubblicazioni, dove ogni articolo è associato a una serie di autori, ognuno dei quali a sua volta è affiliato a una certa istituzione (università o centro di ricerca). Nel mondo della ricerca la mobilità è una componente importantissima. Andare a lavorare per un periodo in un posto piuttosto che in un altro può avere un certo impatto sulla carriera. Su questo è nato addirittura tutto un filone di ricerca dedicato”, prosegue.

Con i loro studi, Boldrini e i suoi hanno aggiunto un altro tassello al mosaico: “Ci siamo chiesti: se ti muovi come cambia la tua ego-network?”. I ricercatori hanno ricostruiti le reti sociali di migliaia di ricercatori scoprendo che chi si muove tanto riesce sì ad allargare la propria rete, ma solo nei cerchi più esterni. “Chi si sposta spesso ha più difficoltà a coltivare collaborazioni stabili, perché nella pratica non è semplice lavorare con continuità con persone lontane”

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