Mobilità sostenibile ed efficientamento energetico delle città, digital twin e 6G: con Raffaele Bruno e Paolo Santi abbiamo parlato di smart city nella nuova puntata del nostro podcast
La nuova puntata di BITbyBIT, il podcast dell’Istituto di Informatica e Telematica del CNR, è dedicata a un tema di cui sentiamo parlare da anni, di cui la ricerca informatica si è occupata a lungo (e di cui ancora continua ad occuparsi) e che crea grande aspettativa tra i cittadini: quello delle smart city. A raccontarci lo stato dell’arte in Italia e nel mondo, le promesse e le realtà applicative di queste tecnologie e le prossime sfide di ricerca su questo argomento ci sono Raffaele Bruno, primo ricercatore presso l’Unità di ricerca Ubiquitous Internet, e Paolo Santi, Dirigente di ricerca nell’unità Algorithms and Computational Mathematics, che collabora con il Massachussets Institute of Technologies di Boston. Con loro parleremo di mobilità ed efficientamento energetico delle città, di progetti rivoluzionari e di scelte dei cittadini, delle differenze culturali e sociali tra Oriente e Occidente, di come la pandemia ha cambiato il nostro rapporto con la città, di digital twin e tecnologie 6G.
Potete ascoltare la puntata sulle principali piattaforme di podcast, in particolare su Spotify e Apple Podcast, o direttamente cliccando sul player qui sotto. Di seguito trovate la versione trascritta della puntata.
[Chiara] C’è una città in Corea del Sud, a circa 50 chilometri da Seoul, che si chiama Songdo. Songdo è una vera città del futuro e tutti i servizi per i suoi cittadini sono disegnati a partire dai dati che si raccolgono nella smart city: c’è molto verde urbano, circolano pochissime auto, è piena di piste ciclabili e quindi a basso impatto sul clima. A Songdo c’è un quartiere residenziale fatto di palazzi completamente smart, che producono energia verde, riciclano le acque piovane e sono ovviamente dotati di dispositivi intelligenti che regolano l’illuminazione e il clima e prevengono gli sprechi energetici. Vivere in questo quartiere è gratis. Cioè, mi spiego meglio: il quartiere è stato realizzato grazie a un progetto immobiliare privato, in collaborazione con l’amministrazione pubblica locale, e poi gli appartamenti sono stati offerti gratuitamente per due anni, a patto che chi si trasferiva lì accettasse una sola condizione: tutti i dati raccolti dalla casa smart sulla vita dei suoi abitanti saranno usati per fare analisi ed elaborare modelli per migliorare il progetto. Non stiamo parlando di una sorveglianza video costante, non è il Grande Fratello, ma si tratta comunque di cedere una buona parte della propria privacy quotidiana in cambio della possibilità di vivere in una casa da sogno, in un quartiere perfetto, in una città ideale.
Viola, tu accetteresti?
[Viola] Oddio, non sarei così entusiasta di vivere in una casa monitorata h24. Nel caso dovrei capire bene chi sta raccogliendo i dati, se è l’università o l’azienda privata, e per quali scopi. Insomma, potrei diti che da buona europea che tiene alla propria privacy avrei diversi dubbi da sciogliere prima di accettare. E tu
[Chiara] io forse sarei curiosa di abitare in una casa ultratecnologica e magari di prendere parte a un esperimento scientifico soprattutto se servisse a capire come migliorare il nostro impatto sul clima
[Viola] Certo, a guardarlo dall’Italia un progetto così sembra davvero uscito da un racconto di fantascienza, non sembra tanto possibile che in tempi brevi nel nostro paese ci possa venire fatta una proposta simile. Di smart city ormai si parla da tanto tempo, per anni abbiamo discusso di sensori, di open data, di città sostenibili, di trasporto pubblico automatizzato (e magari a guida autonoma), di raccolta dei rifiuti smart, di connessione wifi aperta in tutta la città, di illuminazione intelligente, insomma di cambiamenti che poi in effetti non sembrano essersi verificati. La ricerca, che guarda sempre più lontano della nostra quotidianità e immagina soluzioni e risposte che si proiettano di molti anni avanti nel tempo, si è occupata a lungo di questi temi e se ne occupa ancora, ma nelle nostre città non molto sembra essere cambiato.
Vi siete mai chiesti a che punto sono le smart city? O meglio: sono ancora una promessa certa per il nostro futuro o la prospettiva si è molto ridimensionata?
[Chiara] Come avrete capito in questa puntata parliamo di smart city e lo facciamo da due punti vista diversi, intervistando due ricercatori dell’Istituto di Informatica e Telematica che si trovano su una sponda e sull’altra dell’Oceano Atlantico, da Pisa al MIT di Boston. Il primo è Raffaele Bruno, primo ricercatore del gruppo Ubiquitous internet dell’istituto di informatica e telematica.
[Raffaele Bruno] Mi occupo principalmente di reti 5G di tecnologie per l’internet delle cose e di come queste tecnologie possono essere utilizzate per rendere più Smart le nostre città
[Viola] Tra le varie città, Raffaele ha lavorato anche con Firenze. Il progetto europeo Replicate, infatti, vedeva il capoluogo toscano al centro di uno studio dedicato allo sviluppo di città intelligenti.
Tra gli obiettivi di Replicate c’erano l’efficientamento energetico, la mobilità sostenibile e l’innovazione tecnologica. Oggi Firenze è il comune più digitale d’Italia secondo la classifica ICity Rank, seguita al secondo posto da Milano. Eppure Firenze non sembra assomigliare troppo alla città di songdo che abbiamo descritto nella nostra storia iniziale.
[Raffaele Bruno] La città di Firenze nell’ultimo decennio ha investito moltissimo per promuovere la mobilità elettrica e la mobilità sostenibile. Quando il progetto Replicate è iniziato nel 2016 era già allora la città italiana che aveva l’infrastruttura di ricarica per veicoli elettrici più grande d’Italia. Il progetto Replicate doveva proprio aiutare la città a migliorare la sua infrastruttura di ricarica e a favorire ulteriormente la diffusione dei veicoli elettrici in città. Per esempio la città di Firenze aveva deciso di aumentare il numero di licenze di taxi nella città però chiedendo che tutti i nuovi taxi fossero elettrici. Il nostro gruppo di ricerca aveva fra i suoi compiti all’interno del progetto proprio quello di cercare di studiare come queste evoluzioni nella mobilità elettrica in città potevano impattare l’utilizzo dell’infrastruttura di ricarica che la città possedeva. A quel tempo scoprimmo che le colonnine di ricarica venivano utilizzate in maniera non efficiente, da un lato perché la tecnologia allora adottata era a bassa capacità, quindi le ricariche erano piuttosto lunghe, ma al tempo stesso anche perché i cittadini avevano la tendenza a rimanere parcheggiati alle colonnine di ricarica anche dopo aver completato il loro processo di ricarica. Quindi il Comune si interrogava su quali potevano essere le strategie più efficaci per migliorare l’efficienza nell’utilizzo della sua infrastruttura. Ed in effetti dal nostro studio risultò che l’effetto migliore sarebbe stato quello di introdurre dei limiti sul tempo di sosta dei veicoli alle colonnine di ricarica. Al tempo stesso il Comune decise comunque di acquisire delle colonnine di ricarica ad elevata capacità, anche se un numero limitato, e di riservare l’utilizzo di quelle colonnine soltanto per i taxi elettrici. Questi esempi essenzialmente dimostrano come adottando delle politiche smart sia possibile ottenere grossi miglioramenti nei servizi forniti anche riducendo l’entità degli investimenti necessari per realizzare nuove infrastrutture.
[Chiara] Il tema non è soltanto raccogliere i dati, ma anche e soprattutto capire cosa farci, come integrare i risultati della loro analisi nelle decisioni che riguardano la città e i suoi cambiamenti necessari.
Più o meno tutte le amministrazioni locali sono consapevoli della necessità di rendere più smart le nostre città, per avere un impatto minore sul clima e migliorare la vita deii cittadini. Ma poi, di fatto, pochissime lo fanno. Sicuramente c’è un elemento economico da considerare, ma non solo.
Abbiamo chiesto a Raffaele perché, secondo lui in Italia questo tipo di soluzioni è ancora in una fase così embrionale.
[Raffaele Bruno] Se guardiamo il problema da un punto di vista tecnologico possiamo dire che la disponibilità di tecnologie per realizzare le nostre città smart non sia il problema principale. In effetti uno degli elementi più importanti è quello di avere a disposizione delle reti di sensori che possono essere operative in campo per periodi molto lunghi, dell’ordine di anni, senza che sia necessario sostituire le batterie con cui la maggior parte di questi sensori funziona, e se noi pensiamo a tutti i dispositivi che abbiamo vediamo che questo problema tecnologico è in via di soluzione. In effetti già oggi abbiamo tantissime città pilota che hanno implementato dei servizi nella logica smart citiy. Pensiamo per esempio alle infrastrutture di videosorveglianza, ai sistemi di monitoraggio del traffico, di occupazione dei parcheggi, oppure sistemi in cui effettuiamo il monitoraggio dei cassonetti della spazzatura. Inoltre alcune città hanno già messo a disposizione dei portali in cui i dati relativi all’utilizzo dei loro servizi sono resi pubblici e disponibili ai cittadini o chi voglia realizzare delle applicazioni smart per la città. Già ai tempi del progetto Replicate l’obiettivo era proprio capire se una soluzione che poteva avere un effetto benefico sulla città poteva essere replicata e utilizzata così come era con piccole modifiche in contesti diversi, in città più piccole o in città con vocazioni differenti. Per poter fare questa analisi certamente uno degli elementi fondamentali e cruciali è la disponibilità non soltanto dei dati ma anche la disponibilità di modelli che ci permettono di capire a fondo quello che è il funzionamento dei singoli servizi e soprattutto come questi servizi interagiscono fra di loro e si influenzano. Quindi in realtà questi modelli delle singole infrastrutture, dei singoli servizi, non devono rimanere scollegati fra di loro ma devono essere messi in rete fra di loro a formare quello che è una sorta di controparte digitale dell’intera città, quello che oggi comunemente viene chiamato come il gemello digitale della città. Poi è chiaro che oltre a questo si aggiungono altre problematiche relative agli investimenti per modernizzare le infrastrutture, le nostre città o anche problemi legati alla disponibilità di competenza all’interno delle municipalità per poter poi non soltanto gestire ma anche immaginare. Insomma è un processo lungo, probabilmente più lungo di quanto avessimo previsto.
[Viola] Siamo partiti dall’esempio della città di Songdo in Corea perché forse rappresenta al meglio l’idea di smart city che negli anni passati ci era stata raccontata dagli esperti e dai media. Ma abbiamo capito anche che la realtà è infinitamente più complessa. Un aspetto da tenere in considerazione quando si parla di città europee in generale, e italiane in particolare, è che l’innovazione si va a inserire in un contesto urbanistico millenario che presenta molte difficoltà. Il centro storico di una città di origine medievale è praticamente impossibile da cablare e non è semplice far evolvere edifici antichi per contenere gli sprechi energetici.
[Raffaele Bruno] In effetti la città di Firenze è un esempio di come le smart city vengono realizzate nella maggior parte delle città europee, perché in realtà è complesso stravolgere il tessuto urbano. Un esempio di questo molto particolare è quello della città dell’Aquila, che dopo il sisma del 2009 ha vissuto una profonda trasformazione a seguito della ricostruzione e questa ricostruzione ha permesso di realizzare delle nuove infrastrutture che favoriscono l’innovazione digitale della città, ad esempio attraverso la fornitura di fibre ottiche che pervadono l’intera città.
[Chiara] Raffaele ci ha raccontato ostacoli e imprevisti sulla lunga strada che ci porterà, un giorno, ad avere delle città più intelligenti, e ci ha spiegato chiaramente che quello che ci manca non è la tecnologia. Però in realtà c’è una innovazione tecnologica su cui i ricercatori stanno lavorando che porterà davvero cambiamenti in questo campo.
[Raffaele Bruno] Un altro aspetto che sicuramente sarà molto importante per la città del futuro sarà l’utilizzo delle tecnologie 6G, che sono agli albori del loro sviluppo. In questa fase infatti le tecnologie 6G ad esempio permetteranno di realizzare degli ambienti altamente immersivi in cui dispositivi tattili e i sistemi olografici si andranno ad aggiungere e ad affiancare ai tradizionali segnali audio e video. Un altro aspetto importante delle reti 6G è quello di integrare funzionalità di monitoraggio di sensing all’interno della rete stessa, questo per esempio per abilitare dei servizi basati su una localizzazione molto precisa che può permettere essenzialmente di identificare quelle che sono le attività che vengono svolte dall’individuo. E infine non ci dobbiamo dimenticare che la rete 6G è una rete che si pone come obiettivo quello di fornire delle garanzie sulle prestazioni della comunicazione, ad esempio latenze molto ridotte garantite. Questo sarà molto importante in tantissimi scenari complessi, come per esempio reti di droni per applicazioni della logistica o anche per i veicoli autonomi che dovranno collaborare fra di loro per rendere più sicuro il traffico all’interno delle nostre città.
[Chiara] Ricordate il progetto del quartiere coreano che vi abbiamo raccontato all’inizio della puntata? Ecco, a quello studio lavora anche Paolo Santi, dirigente di ricerca dell’ IIT-CNR che collabora con il Senseable City Lab al Massachussets Institute of Technologies di Boston. Lo abbiamo chiamato per farci raccontare meglio di cosa si sta occupando in questo progetto.
[Paolo Santi] In questo momento il quartiere è già stato costruito e le persone ci vivono, sono state fatte delle interviste e cominciano arrivare i primi dati. Noi come gruppo di ricerca siamo impegnati in due cose: la prima, che è stata molto gradita dagli abitanti del quartiere, è fare una attività di design di innovazione, design thinking, dove gli abitanti sono stati direttamente coinvolti. L’idea è quella di presentare alcuni dataset che possono usare per realizzare un’applicazione innovativa in un certo settore e devono formulare idee cercando di capire quali dati sono necessari per poter realizzare la loro app innovativa. Questo permette alle persone di capire che certi dati possono essere assolutamente necessari per fare un’attività che magari sia utile per loro. La cosa interessante è che sono venute fuori alcune idee che non ci aspettavamo, noi diciamo abituati alle nostre idee, alle nostre prospettive, per esempio usare i dati per cercare di capire come si possono prevenire i suicidi che evidentemente devono essere un aspetto molto rilevante nella società coreana. La seconda attività che ancora non abbiamo cominciato a fare, perché ancora non abbiamo avuto accesso ai dati, è analizzare questi dati e cercare di capire come le persone usano questo quartiere intelligente.
[Chiara] Quindi: in Corea l’esperimento di una città smart sembra funzionare. Poi non c’è solo Songdo, ma nell’elenco delle smart city, in stadi diversi di evoluzione, possiamo citare Singapore, Amsterdam, Stoccolma, Londra, solo per fare qualche esempio. Ma non sempre questo tipo di cambiamenti è accolto con entusiasmo dagli abitanti, più specialmente in Occidente, dove se manca un vero coinvolgimento dei cittadini nelle scelte di cambiamento del territorio è difficile che progetti anche famosi e ben finanziati riescano a vedere la luce. Un esempio è quello del Quayside project lanciato a Toronto da Google.
[Viola] La storia in breve è questa: a Toronto c’era un quartiere in disuso da riprogettare, sul fronte del lago Ontario, in una vecchia zona industriale. L’amministrazione della città aveva deciso di accettare un enorme investimento tecnologico da parte di Sidewalks Lab, società di Google, che avrebbe installato sensori e raccolto molti dati sulla vita degli abitanti. Questo ha scatenato un’enorme resistenza da parte dei cittadini, che non l’hanno accettata perché l’investimento è stato visto come una speculazione immobiliare non necessaria ma soprattutto per questioni legate alla privacy, alla raccolta dei dati, al livello di sorveglianza percepito dalle persone. Così, nonostante si parlasse da anni del progetto e si fossero fatti già diversi studi, era diventato impossibile andare avanti, perché le persone manifestavano continuamente e il movimento di opinione intorno a questo cantiere lo ha portato al fallimento. Questo fiasco ha fatto riflettere sia le grosse aziende che le amministrazioni delle città sul fatto che non è impossibile imporre soluzioni (anche tecnologiche, anche magari migliorative) dall’alto. Si deve usare un approccio diverso, coinvolgere i cittadini e dare qualcosa in cambio.
[Paolo Santi] Certamente c’è una differenza di sensibilità su sui temi legati appunto all’utilizzo dei dati e alla privacy. Per esempio fra le società occidentali a quelle orientali, dove c’è nella società orientale una buona sensibilità al tema della privacy o per meglio dire si accettano più facilmente alcuni compromessi se si vede il vantaggio. Come per esempio è successo durante la pandemia, dove come sappiamo in alcuni paesi come il Giappone e la Corea ci sono state delle App di tracciamento molto più invasive di quelle che sono per esempio state realizzate in Italia che hanno però permesso di contenere i contagi in maniera molto più efficace.
[Viola] Ma il coinvolgimento dei cittadini per guadagnarsi la loro approvazione non è l’unico ostacolo. C’è anche la difficoltà a reperire i dati, o meglio, a poterli utilizzare per scopi di ricerca. Sappiamo che l’Europa con la legge sul GDPR ha introdotto una serie di limitazioni importanti in questo senso e abbiamo chiesto a Paolo come la sua entrata in vigore ha modificato il rapporto tra ricerca e dati.
[Paolo Santi] Il GDPR da un punto di vista di innovazione e di ricerca può essere effettivamente essere molto limitante perché rende ancora più difficile poter ottenere i dati dalle aziende. Da un lato vengono prodotti sempre più dati perché la digitalizzazione si diffonde sempre di più, però c’è anche un altro fenomeno, che quando uno arriva a cercare di pubblicare il proprio lavoro le riviste chiedono anche che almeno parte dei dati siano resi pubblici per poter replicare lo studio, e questo chiaramente diventa una sfida quasi impossibile da risolvere con il GDPR, che mette un carico amministrativo notevole sulle aziende, per cui per loro gestire dati ha un costo e porta anche un notevole rischio. Quindi chiaramente hanno meno incentivi e meno volontà di poter condividere dati ai fini di ricerca con enti di ricerca come noi. Da un certo punto di vista in questo senso il covid è stato un piccolo vantaggio (strettamente da questo punto di vista ci tengo a dire) perché nel caso dell’emergenza covid tante aziende hanno rilasciato dataset anche molto dettagliati sulla mobilità, per poter prevenire appunto la diffusione della pandemia, quindi è stata fatta un’eccezione a tutte queste regole per scopi di ricerca e attualmente è sempre disponibile poter accedere a questo tipo di dati. Questa è stata un’eccezione che ci ha permesso in un certo senso di aggirare il problema del GDPR.
[Viola] Eppure con questi dati si possono capire molte cose utili. Grazie alle ricerche di Paolo, per esempio, possiamo capire come è cambiata la nostra società dopo la pandemia e riprogettare servizi come i trasporti pubblici per venire incontro alle nuove esigenze dei cittadini, che non sono più le stesse di qualche anno fa. La pandemia ha cambiato per molti di noi lo stile di vita (ad esempio con lo smart working). Quello che abbiamo vissuto e in parte stiamo ancora vivendo potrebbe cambiare anche l’approccio della società alle smart city?
[Paolo Santi] La pandemia è stata indubbiamente un grosso shock del sistema che poi è stato seguito a ruota da un altro shock che è la guerra in Ucraina che è ancora ancora devastante. Diciamo che ancora un nuovo equilibrio probabilmente non si è raggiunto, cominciamo un po’ più ad avere una stabilizzazione. Per esempio un effetto che c’è stato qua negli Stati Uniti, questo legato più al discorso della pandemia, è che le persone dicono di aver capito meglio il valore del tempo speso per la vita privata o per la vita familiare o in generale fuori dal contesto lavorativo. Questa tendenza la vediamo dai dati: per esempio abbiamo una collaborazione con un’azienda che gestisce grandi edifici che contengono uffici e dove c’è una guardia all’ingresso che che controlla chi entra, e quindi abbiamo dati sulla presenza in questi edifici, e a tutt’oggi la presenza è sempre intorno al 50% dei livelli prepandemici. In particolare per esempio si è visto che c’è una forte tendenza a fare una settimana corta se non cortissima, dove gran parte della gente non va il lavoro al lavoro il venerdì e spesso anche il giovedì. Quindi questo ha portato chiaramente una grossa modifica delle abitudini e per esempio sta un po’ cambiando il classico paradigma che prevedeva la mobilità divisa in mobilità durante giorni feriali e mobilità durante il fine settimana. Questo significa che il classico modo di gestire il servizio pubblico, che finora è visto come avere in un certo senso due categorie una per i giorni feriali e una per i giorni festivi, dovrebbe magari essere aggiornato, per tenere conto del fatto che i giorni feriali adesso sono un po’ diversi e magari il giovedì e il venerdì si necessità di meno servizio perché gran parte delle persone lavora da casa. Questo è un esempio di una tendenza verso un nuovo equilibrio che si è raggiunto dopo la pandemia e in generale un altro grosso cambiamento che è in atto è la maggior consapevolezza dei rischi ambientali che comincia veramente a arrivare sempre di più alle persone. Per esempio anche paesi come la Cina ultimamente stanno investendo tantissimo nell’elettrico e sono diventati dei leader mondiali in questo settore.
[Chiara] Arrivati quasi alla fine di questa puntata abbiamo capito una cosa: che non è semplice fare una smart city, che le nostre città sono dei sistemi complessi e se vogliamo renderle più smart dobbiamo prima di tutto affrontare questa complessità, comprenderla ed usare i dati per interpretarla e risolverla. Uno degli strumenti di cui si parla molto e che rappresenta una frontiera in questo tipo di ricerche è il cosiddetto Digital Twin, il gemello digitale. Il digital twin è una replica virtuale del mondo fisico, che fornisce una fotografia fedele in tempo reale. Questo gemello digitale consente anche di prevedere come il pezzetto di mondo che stiamo studiando (che potrebbe essere, per esempio, un quartiere di una città) reagirà ad eventuali cambiamenti. I ricercatori come Raffaele Bruno e Paolo Santi vedono in questo spazio virtuale un’interessante possibilità per studiare e sviluppare le città del futuro.
[Raffaele Bruno] Il gemello digitale è certamente un argomento di ricerca fondamentale per la smart city e al tempo stesso non è un argomento di ricerca completamente nuovo, perché nel settore industriale il gemello digitale è stato sviluppato da diversi anni. Certamente quello che innovativo è che nel contesto cittadino diventa molto importante integrare nel modello digitale, come si diceva prima, il cittadino stesso e il modo con cui il cittadino interagisce con la città. Per fare un esempio vi sono degli studi che prevedono che, avendo veicoli solo autonomi, il numero di chilometri che questi veicoli percorreranno nelle nostre città potrebbe essere addirittura superiore rispetto a quello che attualmente i veicoli tradizionali compiono; questo perché i veicoli si sposteranno nella città per andare dove c’è una richiesta di mobilità. In un altro progetto europeo noi abbiamo sviluppato dei modelli simulativi per dei sistemi di carsharing in cui si andava a considerare come il sistema di carsharing interagiva con gli altri mezzi di trasporto della città e con il cittadino stesso, perché uno dei rischi che veniva paventato nel progetto è che fosse possibile che i cittadini decidessero di abbandonare l’autobus per invece spostarsi sul sistema sulla mobilità condivisa, sul carsharing, e quindi in realtà l’introduzione di questo che a prima vista poteva sembrare essere un sistema più sostenibile avrebbe avuto un impatto negativo sulla città, perché avrebbe ridotto l’utilizzo del trasporto pubblico. Il CNR ha realizzato un laboratorio virtuale per lo studio della urban intelligence e cioè proprio del gemello digitale, che mette insieme ricercatori di diverse discipline proprio perché è un problema altamente multidisciplinare, che non ha bisogno soltanto degli esperti di dominio ma anche di ICT che modellano come i vari sistemi interagiscono tra di loro.
[Paolo Santi] Effettivamente può sembrare che la parola smart city ormai sia inflazionata perché se ne parla da più di 10 anni e sembra di non vedere i risultati, ma in realtà non è così. Insomma queste tecnologie si stanno diffondendo sempre di più e per esempio il concetto di Digital Twin può essere visto come un’evoluzione più implementativa della Smart city, cioè cercare di effettivamente trarre dei risultati. Quindi i Digital Twin ci permetteranno di fare appunto dei modelli che siano sempre più accurati e vicini alla realtà, per quanto possibile, che potranno essere usati per esempio per capire meglio qual è il futuro delle città quando ci saranno ulteriori innovazioni come per esempio l’auto a guida autonoma oppure le comunità energetiche nei quartieri per bilanciare produzione e consumo di elettricità e chissà quali altri cambiamenti. Se abbiamo modelli saremo pronti ad affrontare i cambiamenti, basandoci sempre più sui dati, e quindi cercando di avere dei modelli il più fedeli possibile, chiaramente nei limiti di quanto è possibile farlo.