iit_cnr_logo
chi siamo ricerca tecnologia progetti formazione collaborazioni news scopus intranet
cnr_logo
chi siamo ricerca tecnologia progetti formazione collaborazioni news scopus intranet

NEWS

condividi: facebook_icon twitter_icon

BITbyBIT, puntata 3: “Internet fa bene alla salute”

Terza puntata per il podcast dell'IIT-CNR: parliamo di e-health e bioinformatica con Franca Delmastro e Romina D'Aurizio

BIT by BIT, il podcast dell’Istituto di Informatica e Telematica del CNR, torna con una terza puntata, intitolata “Internet fa bene alla salute” e dedicata alle connessioni tra digitale e salute. Come ospiti troviamo Franca Delmastro, Prima ricercatrice presso il gruppo Ubiquitous Internet, e Romina D’Aurizio, ricercatrice nell’unità Algorithms and Computational Mathematics. Con loro parleremo dei punti di contatto tra tecnologia e salute, con argomenti come i sensori indossabili, l’e-health, la medicina di precisione e la biologia computazionale.

Potete ascoltare la puntata sulle principali piattaforme di podcast, in particolare su Spotify e Apple Podcast, o direttamente cliccando sul player qui sotto. Di seguito trovate la versione trascritta della puntata.


BITbyBIT – Episodio 3: Internet fa bene alla salute


[Viola] Ero a Linate in coda per l’imbarco del volo per Brindisi quando, improvvisamente, il cuore ha cominciato a battere forsennatamente, il sudore a colare, e la testa girare. Il mio smartphone segnalava una fibrillazione atriale.

Siamo nel 2021 e a scrivere queste parole è Eugenio Finardi, il cantautore italiano. Sulla propria bacheca Facebook racconta il malore che lo ha costretto a rinviare i suoi concerti di Brindisi e Ostuni. Finardi si trovava all’aeroporto quando ha iniziato a sentire che qualcosa non andava. Come poi ha raccontato lui stesso in alcune interviste, se non avesse ricevuto la notifica di fibrillazione atriale probabilmente avrebbe scambiato quel malessere per un leggero affanno dovuto all’operazione di imbarco sul volo che lo avrebbe portato in Puglia. Probabilmente poi su quell’aereo ci sarebbe salito, ritardando così l’arrivo al pronto soccorso. “Adesso sono a casa frastornato, ma apposto” ha scritto il cantautore sui social, ma forse, se quella mattina non avesse indossato lo SmartWatch collegato al telefono, la storia sarebbe potuta finire in modo diverso.

[Chiara] Un orologio smart non è in grado di capire se stiamo avendo un infarto o di farci una diagnosi per una specifica patologia, ma riesce a rilevare, per esempio, se c’è un’anomalia nei battiti cardiaci, e questo spesso basta a salvare una vita, perché nel caso di un infarto cogliere i giusti segnali e agire in modo tempestivo è fondamentale. Ovviamente, poi, per fare una diagnosi completa serve un medico, ma episodi come quello che abbiamo appena raccontato dimostrano che i nostri oggetti connessi, gli smartwatch e anche i telefoni cellulari possono rivelarsi dei validi alleati anche nell’ambito della salute.

L’e-health, anche chiamata Digital Health, o salute digitale in italiano, consiste nell’uso di tecnologia ICT a vantaggio della salute umana secondo la definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Ed è proprio questo il tema che affronteremo In questa puntata vedremo come anche la ricerca informatica può migliorare la nostra vita, o addirittura salvarla come è successo al protagonista della nostra storia di apertura.

Quando si parla di salute e di ricerca legata alla sfera della salute pensiamo subito alle malattie, alle diagnosi e alle cure, ma non è soltanto questo. L’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce salute come uno stato di totale benessere fisico, mentale e sociale, e non semplicemente come un’assenza di malattie o infermità. Di salute quindi, intesa in questo senso più ampio di benessere, e di come monitorarla grazie agli strumenti digitali si occupa Franca Delmastro, ricercatrice presso il gruppo Ubiquitous Internet dell”Istituto di Informatica e Telematica del CNR.

[Franca] La nostra ricerca si concentra su soluzioni tecnologiche che sfruttano dispositivi indossabili o personali come ad esempio gli smartphone, gli smartwatch, ma anche i sensori integrati in questi dispositivi per monitorare aspetti di salute e benessere. Questi sistemi si definiscono di ‘mobile health’ proprio perché utilizzano i dispositivi personali degli utenti per raccogliere ed analizzare le informazioni rilevate dai sensori e possono essere usate sia in ambiente domestico che all’esterno. Possiamo quindi raccogliere sia parametri fisiologici come il battito cardiaco, ma possiamo anche monitorare i comportamenti quotidiani delle persone, come ad esempio le abitudini alimentari o i livelli di stress. Questi dati ci servono per identificare condizioni di salute e benessere anche tenendo conto delle patologie preesistenti
degli utenti.

Per definire delle soluzioni più specifiche, lavoriamo in collaborazione con alcuni medici specialisti, ma le nostre soluzioni non servono ad effettuare delle vere diagnosi cliniche, quello che facciamo è raccogliere dei dati oggettivi, integrarli con altre informazioni esterne ed elaborarli per identificare possibili rischi per la salute, ma soprattutto per cercare di stimolare un cambio di abitudini.

[Viola] Abbiamo chiesto a Franca che differenza c’è tra le applicazioni per la salute che già troviamo all’interno dei nostri smartphone e un’attività di ricerca come quella che conduce lei insieme al suo gruppo.

[Franca] Negli ultimi anni le applicazioni di mobile health hanno inondato il mercato delle app per smartphone e si sono anche molto evolute. Infatti queste app applicano già degli algoritmi di analisi dei dati per poter fornire delle informazioni agli utenti sulle loro condizioni di salute. Il problema è che queste applicazioni sono indipendenti l’una dall’altra e non permettono di integrare i dati tra loro per fornire un quadro complessivo. La nostra attività di ricerca, invece, intende analizzare e integrare dati che rappresentano diverse caratteristiche e condizioni dell’utente. Questi dati sono raccolti da dispositivi diversi e integrati con le informazioni cliniche che sono fornite dai medici. Inoltre noi definiamo dei protocolli di monitoraggio e di utilizzo dei nostri sistemi proprio in collaborazione con medici specialisti perché siamo interessati anche ad avere una validazione clinica dei risultati che otteniamo e questo è possibile solo portando avanti una ricerca altamente multidisciplinare.

[Chiara] Franca usa i dati dei dispositivi per ricavare risposte e questo approccio aiuta la medicina a superare il concetto di una massa indistinta di pazienti medi, impersonale, generica, e introduce invece l’idea di una medicina personalizzata che, ad esempio, permette di monitorare lo stress, la stanchezza o il regime alimentare di una persona, per esempio nella terza età, per migliorare la sua qualità della vita.

[Franca] Nella nostra attività di ricerca si può parlare sicuramente di personalizzazione, perché i sistemi che mettiamo appunto propongono dei suggerimenti che sono tarati sul singolo soggetto all’interno di una specifica categoria.

Per esempio già da molti anni lavoriamo con persone anziane fragili che devono gestire varie patologie croniche e che hanno bisogno di intervenire su alcuni aspetti della vita quotidiana per stare meglio. I rischi più importanti, per loro, sono senz’altro la malnutrizione perché generalmente tendono a diminuire l’apporto calorico e spesso a non idratarsi, ma anche i disturbi del sonno, lo stress e l’isolamento sociale. L’idea che sta alla base delle nostre ricerche in questo senso è quella di raccogliere informazioni sulle singole problematiche in modo semi continuo, quindi in modo molto più frequente rispetto ai normali controlli clinici, per poi dopo integrarla in un indice di fragilità complessivo del singolo soggetto.

Quindi ad esempio il sistema registra il diario alimentare della persona e integra poi queste informazioni con i dati di composizione corporea, che sono misurati da una bilancia impedenziometrica. Oppure si può eseguire un monitoraggio dello stress durante attività di riabilitazione utilizzando i dati di frequenza cardiaca e della risposta galvanica della pelle attraverso dei sensori indossabili.

Con l’analisi e un’integrazione di queste e di altre informazioni cerchiamo di costruire un quadro a 360 gradi delle condizioni di salute e benessere del soggetto. Questa analisi permette quindi di prevenire delle situazioni di rischio e di definire dei suggerimenti personalizzati, ma anche di fornire un quadro completo al medico di famiglia per mettere appunto gli algoritmi.

Per l’analisi di questi dati si possono utilizzare dei dataset disponibili per attività di ricerca, ma è soprattutto fondamentale raccogliere dati da pazienti reali, come abbiamo fatto ad esempio nel progetto Intesa, in collaborazione con la RSA Tabarracci di Viareggio. In quel caso abbiamo realizzato una serie di applicazioni di mobile health che sono state validate e valutate proprio con soggetti anziani fragili e residenti nella struttura. Alcune di queste applicazioni sono state utilizzate anche dopo la fine del periodo di sperimentazione del progetto, perché sia gli ospiti che gli operatori sanitari le hanno trovate utili.

[Viola] In questo tipo di esperimenti, soprattutto se sono coinvolte persone reali c’è una cosa molto importante da tenere in mente, cioè che l’utilizzatore finale deve capire i risultati del proprio monitoraggio. Pensiamo alla storia dello smartwatch che segnalano alterazione del battito cardiaco. In casi come questo è cruciale che il messaggio arrivi in modo chiaro per poter intervenire il prima possibile. C’è poi la questione della privacy: visto che l’intelligenza artificiale fa ormai parte della nostra quotidianità, anche nel delicato ambito della salute prima di affidarci ai suoi suggerimenti dovremmo avere la garanzia che i nostri dati siano al sicuro.

[Franca] Quando si entra nel campo della salute e del benessere le persone tendono ad essere generalmente più scettiche nei confronti dei sistemi informatici, soprattutto quando si parla di Intelligenza Artificiale. Inoltre è fondamentale che non si creino allarmismi inutili, quindi è fondamentale studiare l’accuratezza degli algoritmi proposti prima di mostrarne i risultati, e se possibile fornire anche una spiegazione del loro funzionamento. Per questo si parla di Explainable AI: un insieme di tecniche che forniscono una possibile spiegazione del risultato ottenuto. Queste tecniche non solo aiutano i medici e pazienti a comprendere almeno in parte l’utilizzo del sistema, ma sono anche uno strumento molto utile per validare gli algoritmi proprio dal punto di vista tecnico.

Un altro aspetto che non dobbiamo assolutamente sottovalutare è legato alla fiducia nella trasmissione e nell’elaborazione dei dati personali, soprattutto quando si parla di dati di salute. Infatti è fondamentale far capire alle persone il motivo per cui raccogliamo questi dati e i vantaggi che loro stessi possono ricavare da questa analisi, in modo che siano consapevoli della scelta che fanno nel momento in cui autorizzano o negano il consenso.

[Viola] Cosa ci aspetta quindi per la medicina del futuro? Qualcuno immagina che grazie a dispositivi indossabili e alle analisi precoci elaborate dall’intelligenza artificiale riusciremo ad avere quello che chiamano ‘Hospital At Home’, cioè delle soluzioni di cura tempestive, personalizzate e magari somministrate nelle nostre case senza bisogno di ricoveri ma ci possiamo chiedere se sarà davvero così.

[Franca] In questo momento non è possibile definire una soluzione tecnologica unica, che ci permetta di gestire qualsiasi patologia completamente a casa. Quello che possiamo fare è disegnare dei sistemi di monitoraggio e di supporto che siano sempre più efficaci per specifiche patologie o per specifiche categorie di soggetti, come ad esempio gli anziani fragili. Questo tipo di sistemi ci permetterà sicuramente di avere più continuità nella cura, anche se per alcune situazioni dovremmo comunque ricorrere all’ospedale.

La vera sfida nel settore della digital health è la personalizzazione della cura e la visione a 360 gradi dello stato di salute. Infatti spesso è molto difficile per un medico avere una conoscenza completa di tutte le condizioni di un paziente e le nuove tecnologie ci possono aiutare raccogliendo grandi quantità di dati eterogenei, e identificando anche delle nuove correlazioni tra dati che prima semplicemente i medici non avevano a disposizione e questo ci può portare quindi anche ad importanti risultati clinici.

[Viola] Spazzatura. Fino alla fine del secolo scorso, nei laboratori di ricerca una parte del nostro DNA veniva chiamata così. Anzi, a dire la verità più che una parte. Ben il 98%, la quasi totalità. Per capire il motivo facciamo un passo indietro: come abbiamo imparato studiando la biologia a scuola, il DNA contiene tutte le informazioni che definiscono le nostre caratteristiche fisiche, per esempio il colore degli occhi o quello dei capelli. All’interno di ogni singola cellula del nostro corpo è presente una molecola di DNA, composta da due filamenti che si intrecciano formando la classica doppia elica, che è l’immagine che tutti abbiamo in mente quando si parla di DNA. Ognuno di questi filamenti contiene una sequenza di geni. Ogni singolo gene, grazie a una serie di passaggi che vi risparmieremo in questo podcast, riesce a fornire le indicazioni per creare una proteina. Poi a sua volta ogni proteina realizzata dal nostro corpo svolge un ruolo specifico, come per esempio dare il colore ai nostri occhi.

[Chiara] Viola, aspetta, tutto interessante, ma io mi sto perdendo e non ho capito perché stiamo parlando di DNA e di proteine.

[Viola] Aspetta, aspetta, ancora un attimo di pazienza e ci arriviamo.
Dunque, stavamo dicendo che ognuno di noi ha dei geni. Questi geni creano le proteine, o meglio, per usare il termine corretto, codificano le proteine. C’è da dire, però, che questi geni codificanti sono in realtà una piccolissima parte del totale dei nostri geni, circa il 2%. Quindi, come dicevo all’inizio, il restante 98% dei geni non è in grado di codificare proteine e quindi viene definito anche non codificante o in inglese non coding. Questo è proprio il DNA che fino a qualche decennio fa veniva chiamato spazzatura, visto che si credeva che non avesse nessuna funzione. Oggi però le cose sono cambiate nel tempo gli scienziati hanno osservato che le mutazioni del cosiddetto DNA spazzatura possono causare delle disfunzioni del nostro corpo e anche favorire la nascita di alcune malattie. Hanno anche notato che alcune sequenze di DNA non codificante si sono conservate di generazione in generazione per centinaia di milioni di anni, e anche per questo si è iniziato a pensare che  un ruolo biologico, queste sequenze di DNA, dovessero averlo. Insomma, si è capito che il termine spazzatura per il DNA non codificante proprio non era adeguato.

[Chiara] É una bella storia, che racconta di come la scienza si costruisce un pezzetto per volta, anche andando a distruggere quelle che erano delle certezze di un tempo per ripartire di nuovo da zero. Però io ancora non ho capito cosa c’entrano la biologia e il genoma umano con l’informatica.

[Viola] C’entrano, perché dove ci sono tanti dati l’informatica diventa fondamentale, e nel nostro DNA sono contenute davvero tantissime informazioni. Pensa che se mettessimo in fila il DNA contenuto in tutte le cellule del nostro organismo potremmo collegare la terra al Sole, che dista da noi ben 150 milioni di chilometri più di 300 volte.

[Chiara] Ok, corretto, gestire tutti questi dati e fare i calcoli su di loro, senza l’informatica sarebbe impossibile, però sento che ci serve una mano per parlare di tutto questo, e so anche chi può aiutarci. É Romina D’Aurizio, che è una ricercatrice nell’unità Algorithms and Computational Mathematics dell’Istituto di informatica e telematica del CNR.

[Romina] Mi occupo di bioinformatica, sono in realtà laureata in matematica e ho sempre avuto una grande passione e interesse per la medicina e la biologia in generale. E la mia attività di ricerca in qualche modo mette insieme combina questi due mondi che sembrano tanto lontani fra loro, ma nella realtà ogni giorno poi io mi ritrovo ad usare la matematica per capire qualcosa di più della biologia.

[Chiara] L’informatica e la matematica sono al servizio della biologia ormai da qualche decennio. Negli anni ’90 la comunità scientifica di tutto il mondo si è unita per il Progetto Genoma Umano, che aveva lo scopo di sequenziare, cioè di dividere in sequenze, in porzioni identificabili il nostro genoma. È stato un lavoro che è durato quasi 20 anni, che ha coinvolto scienziati da tutto il mondo, e che ci ha permesso di iniziare a tracciare una mappa più precisa del nostro DNA. Da lì sono proseguiti numerosi progetti internazionali, con l’obiettivo di capire sempre di più la funzione dei geni e la relazione che c’è tra il DNA codificante e quello non codificante. Si tratta di progetti più che ambiziosi, perché gli scienziati hanno una mole enorme di dati da analizzare, e perché sappiamo già che questi dati sono solo la punta di un iceberg formato da altre migliaia e migliaia di dati, che ancora neanche conosciamo. Per questo l’informatica e il lavoro degli scienziati come Romina è così importante, tanto d’aver dato vita a una vera e propria branca dell’informatica, che viene chiamata bio-informatica o anche biologia computazionale. È un filone di ricerca multidisciplinare che comprende la biologia, la matematica applicata, la statistica, l’intelligenza artificiale e anche la biochimica. Il gruppo di ricerca guidato da Romina si occupa proprio di questo.

[Romina] Il problema principale è che non conosciamo ancora l’informazione contenuta nella maggior parte del nostro DNA, cioè di circa il 90% non sappiamo cosa faccia, cosa sia, quale sia la sua funzione. Infatti il primo Genoma Umano, la prima versione del genoma umano, è stata pubblicata nel 2001, e conteneva tanti buchi. Per la cronaca qui il contributo dei computer e dell’informatica è stato fondamentale per ricostruire questa prima versione, e i progressi tecnologici che ci sono stati negli ultimi anni, in particolare per quanto riguarda sia le tecnologie di sequenziamento che la computazione, quindi l’uso dell’informatica e dei modelli informatici, ha permesso di completare finalmente la sequenza del genoma umano che è stata pubblicata di recente.

[Viola] Il lavoro di Romina e colleghi potrebbe sembrare lontano dalle applicazioni cliniche ma non è così, anzi, ed è affascinante vedere come nuove cure per malattie oggi incurabili potrebbero arrivare proprio da quello che un tempo veniva chiamato DNA spazzatura. Romina e il suo gruppo di ricerca hanno partecipato a numerosi progetti come, ad esempio, quello in collaborazione con l’Istituto Europeo di Oncologia per individuare le caratteristiche geniche del tumore al seno.

[Romina] Il DNA non codificante può essere uno strumento veramente concreto di aiuto per la diagnosi. Per capirlo, diciamo, possiamo fare l’esempio di quello che succede oggi a chi è affetto da una malattia genetica. Se una persona ha una malattia, ad esempio, neurologica, ritardi mentali, disabilità intellettuale, eccetera… questa persona viene sottoposta ad un’analisi, in genere un sequenziamento, che ci restituisce una sorta di mappa di tutte quelle che sono le mutazioni nei suoi geni. E tra queste noi informatici, matematici, di supporto ai genetisti, cerchiamo di capire quali di queste possono aver causato la malattia. Il problema sta nel fatto che, ad oggi, nel 50% dei casi non riusciamo a trovare, in quella mappa, nessun indizio che ci aiuti a risalire alla causa della malattia, e quindi dobbiamo trovarla altrove. È proprio per questo che abbiamo deciso di cominciare a cercare queste, le cause delle malattie, anche nel non coding, e ci aspettiamo di poter trovare le risposte alle diagnosi del rimanente 50 per cento.

[Viola] La possibilità di analizzare in dettaglio e patrimonio genetico di ogni singolo individuo ha permesso alla medicina di compiere passi da gigante, tanto che oggi, di fronte al sospetto di una patologia, o anche una volta avvenuta la diagnosi, si effettuano spesso test genetici alla ricerca di specifiche caratteristiche del DNA. La presenza di una mutazione può infatti contribuire a stabilire con certezza la diagnosi di una malattia, oppure può aiutare il medico a decidere quale terapia scegliere per quel determinato paziente. Le analisi del DNA poi servono anche a seguire meglio il paziente del tempo e a verificare l’effetto dei trattamenti. Queste pratiche sono note come medicina di precisione e rappresentano per molti uno sguardo sulla medicina del futuro sempre più avanzata e sempre più personalizzata. L’intelligenza artificiale per l’analisi dei dati è uno strumento in più nelle mani della scienza medica, grazie a ricercatori come Romina.

[Romina] Fare medicina di precisione, in questo momento storico, vuol dire poter trattare ogni paziente con una terapia mirata, personalizzata in base a quelle che sono le caratteristiche della malattia, e anche in base a quelle che sono le caratteristiche genetiche del paziente. Le nostre ricerche utilizzano metodi di Deep Learning, e in generale di intelligenza artificiale, per caratterizzare meglio i pazienti e le loro malattie; quindi, collezionando tutti i dati che abbiamo a disposizione sul paziente, sulle mappature, diciamo, genetiche di queste malattie disponibili, al fine di identificare la terapia più adatta a loro. E questo, appunto, è possibile grazie anche alla capacità dei computer di processare questa enorme mole di dati che abbiamo a disposizione.

[Chiara] Grazie alla medicina di precisione si vanno quindi a disegnare delle soluzioni su misura per ogni singola persona che ha bisogno di seguire una terapia, e tutto questo oggi è possibile per i due motivi che vi abbiamo raccontato fino a ora, perché negli ultimi decenni, come abbiamo detto, una serie di ricerche e progetti internazionali hanno tirato fuori, continuano a tirare fuori tantissimi dati che raccontano come siamo fatti e come funziona il nostro corpo.

E perché, contemporaneamente, l’evoluzione dell’informatica ha permesso di gestire e analizzare questa mole enorme di dati. L’informatica ormai è davvero un’alleata della medicina, come ci spiega Romina.

[Romina] Quando abbiamo iniziato a introdurre questi strumenti informatici metodi, algoritmi, non tutti i medici erano convinti dell’utilità, e probabilmente perché c’era il timore che l’informatica in qualche modo potesse sostituire o provare a sostituire il professionista sanitario. Ormai, fortunatamente, abbiamo superato questa barriera, e si è capito che per analizzare la quantità enorme di dati e la loro complessità, abbiamo bisogno dell’aiuto di matematici, informatici e di computer, cluster e grandi strumenti di computazione.
Per me poter, con le mie conoscenze essere utile per qualcuno è la cosa più importante. Faccio una ricerca di base, che può essere considerata ricerca di base, che sembra lontana dall’applicazione clinica, ma in realtà non lo è.

In questo periodo storico le nostre conoscenze analitiche sono fondamentali e lo sono perché siamo in grado di leggere meglio i dati che abbiamo grazie al supporto, diciamo, dell’informatica e dei computer, e di trattare dati ‘big’ e complessi che la mente umana in realtà non sarebbe in grado di gestire da sola. Finalmente, quindi, siamo nella situazione in cui è il clinico che ci chiede aiuto nel gestire questi dati, e quindi quello che noi facciamo è supportare la decisione medica.

Quindi non vogliamo in nessun modo dire che l’intelligenza artificiale sostituirà un giorno il medico o possa farlo, ma è necessaria come supporto a mettere insieme tutti i dati che abbiamo a disposizione sul paziente e a ipotizzare un decorso clinico. Noi collezioniamo, modelliamo i dati a disposizione e per estrarre dei numeri, delle statistiche fare delle predizioni, per esempio nelle percentuali di successo di un farmaco. e queste sono tutte indicazioni che vengono date al medico e le prende in considerazione poi per la sua decisione.

condividi: facebook_icon twitter_icon
tutte le news